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La pari presenza di genere oltre la tecnica normativa

Ornella La Tegola, Ricercatrice di Diritto del Lavoro nell’Università di Bari Componente del Comitato Tecnico Scientifico di Open Corporation

Ci stiamo avvicinando alla Giornata Internazionale della Donna, una ricorrenza celebrata sia oltreoceano che nel continente europeo e rifletteremo sui progressi in ambito economico, politico e culturale raggiunti dalle donne in tutto il mondo. Leggeremo interviste e articoli sulla presenza delle donne in politica e nei luoghi di lavoro, sulla loro (scarsa) presenza nei ruoli di vertice, sulla bontà delle quote rosa nei board delle aziende quotate in borsa. Esprimeremo tutti le stesse conclusioni: cioè che tanto è stato fatto ma che c’è ancora tanta strada da percorrere per ottenere la parità tra uomini e donne.

Insomma, se è vero che, almeno in Italia, abbiamo indubbiamente fatto grandi passi in avanti da quando Mussolini si faceva portavoce di “bizzarre” idee[1], è anche vero che ancora tanta strada deve essere percorsa. E questa considerazione riguarda, purtroppo, un ambito geografico che va oltre l’Italia.

Qualche tempo fa è stato pubblicato uno studio del team GS Sustain di Goldman Sachs Asset Management dal titolo Womenomics secondo il quale indipendentemente dai periodi di tempo presi in considerazione, maggiore è la rappresentanza delle donne ai livelli più alti dell’azienda, maggiore è il miglioramento delle prestazioni dell’azienda. La migliore performance sarebbe quindi data dalla presenza di una percentuale maggiore di donne nel consiglio di amministrazione. Orbene, non mi addentrerò nell’analisi dei profili economici e di ESG richiamati dallo studio – che lascio alle mie competenti colleghe del CTS di Open Corporation, #AnnaMariaRomano e #OrnellaCilona – ma vorrei cogliere lo spunto dai vantaggi della presenza delle donne nei board per proporre qualche considerazione sui profili della tecnica normativa utilizzata per raggiungere l’obiettivo della pari presenza di genere in tutti i luoghi della vita sociale, culturale, politica ed economica del Paese, tra cui anche nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa.

Almeno in Italia, si tratta di una scelta di politica legislativa[2] volta a obbligare le società quotate in borsa a garantire la parità di genere nei propri consigli di amministrazione. Che poi la legge non richieda una vera e propria parità perché impone la presenza femminile in una quota pari al 40% è un dato trascurabile, vista l’irrisoria presenza delle donne nei board prima di questa legge. In un rapporto del 2020[3], è emerso che l’effetto della legge è stato far salire il numero delle donne nei consigli di amministrazione delle società quotate al 36,3%, sebbene si contino solo 14 amministratrici delegate. E infatti dai dati messi a disposizione dall’Osservatorio Open Corporation risulta che le società con casa madre italiana hanno una percentuale di donne nel board non sempre in linea con le previsioni normative. Abbiamo #Enel – che si classifica al primo posto nel ranking Open Corporation e al primo posto nel rating Diversity – che ha una percentuale di donne nel board pari al 44,4% e #Autogrill – che nel ranking Open Corporation si classifica al 17mo posto e al 19mo posto nel rating Diversity – che ha una percentuale di donne nel board pari al 46,2%; per contro abbiamo #Webuild e #AssicurazioniGenerali che presentano, rispettivamente il 33,3% e il 38% di donne nel board (quindi entrambe al di sotto della soglia fissata per legge), pur collocandosi, rispettivamente, all’11mo e al 13mo posto nel ranking e al 2° e al 7° posto del rating Diversity. Si conferma, quindi, che sono poche le società quotate andate oltre il minimo imposto dagli obblighi di legge e ancora meno quelle in cui le donne occupano le posizioni più alte. Tra le prime multinazionali classificate nel ranking Open Corporation, infatti, solo la #NorskHydroAsa ha il ceo donna e si colloca all’ottavo posto nel ranking e solo all’11mo posto nel rating Diversity[4].

Insomma, prescrivere le cd. quote rosa o soglie minime di presenza femminile è senz’altro utile, ma non risolutivo perché il mondo del lavoro è ancora a misura d’uomo[5]. C’è bisogno di interventi mirati per cambiare il modo di pensare delle persone, perché la questione della parità di genere attiene alla qualità della vita di chiunque, non solo di chi appartiene al genere femminile. È una questione di idee che si perdono, di approcci allo studio, alla ricerca, alla soluzione di problemi che vengono ignorati.

Creare pari opportunità significa creare le migliori condizioni perché il potenziale femminile possa esprimersi senza ostacoli o condizionamenti. Questo vuol dire che sia lo Stato che l’azienda devono investire sulle famiglie e sulla loro stabilità. Lo Stato[6] deve quindi predisporre strumenti normativi efficaci per promuovere la presenza delle donne e trovare un punto di equilibrio sostenibile tra vita lavorativa e vita privata, così come per contrastare con fermezza ogni forma di discriminazione o di violenza basata sul genere.

Penso che sin tanto che la sproporzione tra uomini e donne sarà così evidente, è necessario che lo stato intervenga promulgando leggi a sostegno della presenza delle donne nella vita economica, politica e sociale del paese. Insomma, le c.d. quote rosa rappresentano una tecnica legislativa necessaria per il loro potere incentivante (anche se non sufficiente ad eliminare le disparità di trattamento). È ovvio che una volta che si sarà raggiunto l’obiettivo della parità di trattamento non sarà più necessario emanare questo tipo di leggi. Ben vengano quindi normative come quella italiana sulla presenza delle donne nei board delle aziende quotate in borsa, ma è doveroso fare qualcosa di più. Potremmo forse aspirare a una estensione del suo ambito di applicazione, in modo che anche le aziende non quotate in borsa siano obbligate ad avere donne nei loro consigli di amministrazione, senza confidare nell’effetto emulativo che fin qui, almeno in Italia, ha prodotto scarsi risultati.

Ciò vuol dire che anche le imprese hanno un ruolo fondamentale per il raggiungimento della parità di trattamento. Come risulta dai dati di OpenCorporation, tante aziende hanno già implementato diverse misure di armonizzazione famiglia/lavoro e flessibilità lavorativa. Ma evidentemente non basta. Si potrebbe fare di più introducendo meccanismi di controllo e di monitoraggio degli ostacoli ai percorsi di carriera ambiziosi, che complicano il raggiungimento di ruoli executive, oltre che lavorare sulla forma mentis del personale al fine di far comprendere che il voler conciliare vita lavorativa e familiare non è una debolezza ma è quello che ci rende serie ed affidabili. È una qualità da promuovere e non da osteggiare.

L’analisi dei dati del rating Diversity di OpenCorporation restituisce infatti l’immagine di multinazionali che hanno sicuramente adottato una serie di iniziative per l’eliminazione della disparità di trattamento. Tuttavia, non sembra ancora esserci una multinazionale che faccia della diversità sostenibile il suo cavallo di battaglia. In alcuni casi, anzi, sorge il dubbio che si tratti più di diversity washing che di concreta ed effettiva promozione della parità di trattamento sui luoghi di lavoro.


[1] Come non ricordare le sue uscite sul ruolo delle donne nella società che tanto hanno condizionato la società e gli studiosi del tempo. A leggerle ora fanno sorridere per la loro ingenuità, ma molto di questo retaggio culturale è purtroppo rimasto. Tra le tante vd. «[…] La donna deve obbedire. La mia opinione della sua parte nello Stato è opposta ad ogni femminismo. Naturalmente non deve essere schiava, ma se le concedessi il diritto elettorale, si deriderebbe. Nel nostro stato essa non deve contare» e la più famosa «Le donne devono essere le custodi dei focolari», entrambe riportate da Emil Ludwig in Colloqui con Mussolini, Mondadori, 1932. Quest’ultima è stata poi rilanciata dal personaggio interpretato da Diego Abatantuono nel film “I fichissimi” quando zittiva la sorella chiamandola “femmina” e la invitava a tornare «dentro al fornello che è il tuo ambiente naturale, il tuo piccolo mondo antico». Come non ricordare, poi, le parole di un noto accademico, filosofo, figura di spicco del fascismo italiano, secondo il quale «La donna non desidera più i diritti per cui lottava […] (si torna) alla sana concezione della donna che è donna e non è uomo, col suo limite e quindi col suo valore […]. Nella famiglia la donna è del marito, ed è quel che è in quanto è di lui», così G. Gentile, La donna nella coscienza moderna, in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, 1934, p. 1; e di un altro politico ed economista, ispiratore della politica sociale e della famiglia del regime fascista, che scriveva «La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia […], deve diventare oggetto di disapprovazione, la donna che lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, […], il lavoro femminile crea nel contempo due danni: la «mascolinizzazione» della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito […]; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe», così Ferdinando Loffredo, Politica della famiglia, Bompiani, 1938. V’è da precisare che pure il Papa Pio XI, con l’Enciclica Quadragesimo Anno, condannerà nel maggio 1931 il lavoro delle donne fuori dalle mura domestiche. Famoso è il passaggio: «Le madri di famiglia prestino l’opera loro in casa sopra tutto o nelle vicinanze della casa, attendendo alle faccende domestiche. Che poi le madri di famiglia, per la scarsezza del salario del padre, siano costrette ad esercitare un’arte lucrativa fuori delle pareti domestiche, trascurando così le incombenze e i doveri loro propri, e particolarmente la cura e l’educazione dei loro bambini, è un pessimo disordine, che si deve con ogni sforzo eliminare». Intanto venne varata una legge che ammetteva negli uffici pubblici e privati l’impiego di un massimo del 10% di donne in proporzione ai posti e stabiliva l’esclusione totale delle donne da quei pubblici impieghi per i quali fossero ritenute inadatte per inidoneità fisica o per le caratteristiche degli impieghi stessi. Il Regio Decreto n. 989/1939 precisò addirittura quali impieghi statali potessero essere assegnati alle donne compiendo una valutazione di idoneità alla mansione ex ante che prescindeva dall’effettivo stato di salute della donna ma la riguardava “perché donna”.

[2] Legge 12 luglio 2011, n. 120 sulla parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati.

[3] Rapporto Cerved-Fondazione Marisa Bellisario 2020 sulle donne ai vertici delle imprese, realizzato in collaborazione con l’Inps, che analizza l’impatto sulle imprese italiane della legge in questione.

[4] Con una donna come CEO ci si aspetta, invece, che la multinazionale si collochi ai primissimi posti del rating diversity e non in una collocazione mediana come quella che invece occupa.

[5] Secondo l’indice costruito dal World Economic Forum, l’Italia è al 76° posto per disparità di genere sui 149 censiti, agli ultimi posti tra gli Stati più avanzati: per quanto riguarda le opportunità economiche è scivolato al 117° posto, con performance particolarmente negative in termini di parità salariale. In Italia è occupato il 56,2% delle donne tra i 15 e 64 anni contro il 75,1% degli uomini, una percentuale che risulta tra le più basse all’interno dei 37 Paesi censiti da Eurostat. Peggio di noi fanno solo Macedonia e Turchia.

[6] In Italia sostenuto dall’art. 3 c. 2 della Costituzione.

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