di Anna Maria Romano, CGIL Toscana, Vice-Presidente di UNI-Europa Finance, esperta di problemi finanziari di CTS OpenCorporation
Eni S.p.A., originariamente Ente Nazionale Idrocarburi, è un’azienda multinazionale creata dallo Stato italiano nel 1953, con la presidenza di Enrico Mattei, morto misteriosamente nel 1962. Fu convertita da Ente Pubblico in società per azioni nel 1992. Simbolo del Cane a 6 zampe e presente in 66 paesi con 32053 dipendenti nel 2019, l’Eni è attiva nei settori del petrolio, del gas naturale, della chimica e della chimica verde, della produzione e commercializzazione di energia elettrica e delle energie rinnovabili: 8° gruppo petrolifero e 83° per fatturato a livello globale.
Le azioni di Eni sono per il 30,1% di proprietà statale (circa 4,3% di proprietà del Ministero dell’Economia e Finanze e per circa il 25,7% di Cassa Depositi e Prestiti). Quindi, una partecipazione tale da influenzare le scelte in un settore più che strategico in un’ottica sia di breve che di lungo periodo per una visione diversa e rispettosa dei bisogni ambientali.
Se noi navighiamo nel sito ENI, scopriamo informazioni rassicuranti: ENI abbraccia gli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile,
“ quindi, oltre a operare ovviamente nel rispetto delle leggi, in conformità agli accordi e agli standard nazionali e internazionali, e ai regolamenti e alle politiche nazionali, abbiamo improntato la nostra azione a principi di sostenibilità, circolarità, e con una sempre maggiore attenzione all’investimento su fonti rinnovabili e a basso impatto. Inoltre, […]Eni protegge la biodiversità terrestre e marina e dei servizi ecosistemici nelle proprie attività: assicurando lo stato di salute dell’ambiente naturale contribuisce allo sviluppo economico e sociale”.
Il suo vertice è stato appena riconfermato.
Tranquilli così?
La scomoda sensazione di trovarmi di fronte ad un’ottima operazione di greenwashing è potente.
Aldilà delle affermazioni virtuose fino ad ora, invece, ENI è stata nell’occhio del ciclone degli ambientalisti per l’impatto dei suoi giacimenti petroliferi, con non pochi problemi in diversi siti globali: la lista è lunga. Ma Eni è accusata anche di violare i diritti umani nella zone sul Delta del Niger, dove sorgono numerosi impianti della compagnia e dove milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno.
Concordo con Greenpeace che ritiene fondamentale la presenza all’interno del nuovo management di competenze legate al mondo della decarbonizzazione e della transizione energetica.
C’è bisogno di investimenti di medio lungo periodo rivolti ad una transizione energetica verso una reale produzione green. Bisogna segnare la via del cambiamento con fatti concreti, investimenti lungimiranti e capaci di capovolgere gli effetti socio-ambientali negativi.
E perciò un’altra preoccupazione mi arriva guardando come gli effetti del COVID 19 sul petrolio si fanno sentire anche in casa ENI dove confermano che la prima misura intrapresa per limitare le conseguenze negative del crollo del prezzo del barile sarà proprio la riduzione degli investimenti sia per il 2020 che per il 2021. Cosa significherà in termini di investimenti green lo scopriremo molto presto, visto che il riconfermato Descalzi pare pronto ad una nuova ristrutturazione per far fronte alla situazione.
C’è un altro aspetto che proprio non ci lascia tranquilli nel guardare dentro la scatola ENI. Perché questa multinazionale italiana ha una importante holding del gruppo, Eni International B.V., con sede legale in un paradiso fiscale come i Paesi Bassi. Fondata nel 1994, la holding olandese controlla decine di società del gruppo.
Ma ENI non è l’unica entità presente nei Paesi Bassi: ci sono anche Enel Finance International NV, la sussidiaria di Enel Spa che gestisce i servizi finanziari del gruppo e Saipem International BV che controlla più di trenta società del suo gruppo. Dunque, lo Stato italiano si auto elude pezzi di fisco attraverso partecipazioni strategiche: qualcosa non funziona.
In questo caso, lo Stato non è un semplice azionista, ma deve assumere il ruolo di costruttore strategico della politica socialmente ed ambientalmente responsabile di una multinazionale come ENI, con una ulteriore responsabilità rispetto a quella generica di indirizzo sulle modalità operative di energia e idrocarburi in Italia.
Ma insomma, non ci va mai bene niente? Non è così. Analizzare e conoscere ci serve per trovare strumenti nuovi e soluzioni possibili, che è anche l’dea sottostante Open Corporation. Avere consapevolezza che un’azienda come ENI è patrimonio collettivo, in realtà, ci deve dare la forza di intervenire con forme di pressione attraverso l’esercizio di una cittadinanza responsabile. Abbiamo bisogno di un’azione di influenza collettiva: la pressione di gruppi di attivisti e la crescente aspettativa dell’opinione pubblica rendono ineludibile per ogni azienda la valutazione del capitale reputazionale. Vale ancora di più quando lo Stato ne è il responsabile.
Fino ad arrivare all’azionariato critico, come strumento aggiuntivo alle campagne che già esistono, che puntano sul rischio reputazionale delle multinazionali. L’azionariato critico, quando coordinato, può muoversi per influenzare la politica delle aziende che non considerano il proprio impatto negativo sul mondo esterno. Come afferma Simone Siliani, direttore della Fondazione Finanza Etica,
“l’azionariato critico pone l’accento sul ruolo attivo e la responsabilità etica di ognuno dei comproprietari. È dunque anche uno strumento che permette di migliorare la conoscenza e la partecipazione dei piccoli azionisti e dei cittadini alle scelte delle imprese in campo finanziario. Ma, certamente, chiede all’azionista di riferimento-Stato di assumersi le responsabilità di guida della società, indirizzandola ai fini dell’interesse generale del paese”.
Non esiste una soluzione semplice, ma dobbiamo percorrere traiettorie inusuali e usare strumenti capaci di influire sulle scelte originarie. Senza timore di entrare in territori apparentemente pericolosi.
Pesiamo alla potenza di fuoco economico e, quindi, di influenza, che hanno oggi i nostri fondi pensione, azionisti di imprese con i nostri soldi, il nostro futuro. Ma, come sempre, anche questa è un’altra storia.
Be First to Comment