Davide Dazzi, Ires Emilia-Romagna e OpenCorporation
In continuità con quanto già riportato in un precedente articolo sul diverso rapporto tra pubblico e privato nei sistemi sanitari nazionali di fronte alla minaccia del Covid-19, qui si tenta di restituire un punto di osservazione comparata per comprendere come la capacità di reazione nel presente dipenda anche da tendenze strutturali divergenti dei sistemi sanitari nazionali in Europa. Oltre a comprendere come fattori organizzativi e strategici possano incidere nella definizione di politiche di contenimento al propagarsi di una pandemia, l’affondo sulla sanità offre sicuramente un quadro di contesto dentro cui le multinazionali osservate da OpenCorporation tendono a muoversi in maniera diversificata. E se veramente il “dopo Coronavirus” deve essere diverso dal “prima”, diventa sempre più importante interrogarsi sul com’era prima.
Tre sono gli elementi di osservazione che si propongono come fattori di criticità in una prospettiva comparata: la quota di finanziamento pubblico della spesa sanitaria, l’occupazione sanitaria relativa all’andamento demografico e le diverse strategie di cura su cui si è deciso di orientare il sistema sanitario nel tempo.

La spesa sanitaria ha coperture pubbliche, assicurative volontarie e individuali ovvero a carico dei diretti cittadini (out of pocket). Se si guarda al solo finanziamento pubblico della spesa sanitaria si nota come l’EU-15 presenti nel 2018 un intervento pubblico in rapporto al PIL (GDP) che varia dal 3,4% della Lettonia al 9,5% della Germania passando dal 6,5% dell’Italia, al 6,2% della Spagna, al 9,3% della Francia e della Svezia e al 7,5% del Regno Unito.
In dinamica, tuttavia, si rintracciano traiettorie distinte. Dal 2000 al 2010 la quota pubblica della spesa sanitaria cresce nella maggior parte dei paesi qui considerati. Solo la Germania presenta un trend statico per poi accelerare nel 2009-2010, da quando tutti i sistemi nazionali registrano un incremento in rapporto al PIL della quota pubblica.

Dal 2010, tuttavia, si registrano traiettorie divergenti. Mentre in Germania, Regno Unito e Francia la quota pubblica alla spesa sanitaria aumenta, in Spagna e Italia registriamo un trend calante e rispettivamente dal 2010 al 2018 si passa dal 6,7% al 6,2% e dal 7% al 6,5%. Si individuano quindi arretramenti e avanzamenti del ruolo del pubblico a copertura della spesa sanitaria nazionale.

Per meglio osservare l’evoluzione della spesa sanitaria pubblica si ritiene più utile mostrare la diversa spesa pro-capite in Eu-15 in quanto il valore nominale della spesa sanitaria (espresso qui in $ in parità di potere di acquisto PPP) dipende, tra le altre cose, dalla dinamica demografica, dall’efficienza dell’organizzazione sanitaria e dalla propensione al consumo sanitario degli individui. L’osservazione nell’arco temporale possibile da fonte (Ocse), ovvero 2000-2018 mostra alcune chiare tendenze. Rispetto alla media Eu-15 (posta pari a 100) alcuni paesi si pongono sopra, mostrando una spesa pubblica sanitaria pro-capite superiore alla media (come la Germania e la Francia) e altri si pongono al di sotto (come Italia, Spagna e Regno Unito).

In altre parole, per ogni 100$ dollari di spesa pubblica in sanità investiti in media nella Eu-15 la Germania ne spende nel 2018 quasi 150$ e la Spagna meno di 70$. In particolare si distinguono due tendenze particolari. In Germania dal 2008 al 2018 la spesa pro-capite sanitaria pubblica cresce da 109% al 143% della media Eu-15 mentre in Italia scende dall’87% del 2000 al 72% del 2018. I dati confermano quindi come la quota pubblica di spesa sanitaria abbia percorso traiettorie distinte nel tempo.

Anche i dati OCSE sull’occupazione sanitaria evidenziano una mappa molto difforme in una comparazione dei Paesi Eu-15 (2016, ultimo anno con i dati allineati per i Paesi Eu-15): dagli 88 occupati in sanità per 1000 cittadini in Danimarca ai 25 in Polonia e nella Repubblica Slovacca. La densità rilevata nel 2016 è un punto di approdo di tendenze comuni in molti paesi, scontando, tuttavia profonde differenze strutturali.
Tra il 2010 ed il 2018 si rileva un incremento della densità dell’occupazione sanitaria nei diversi paesi considerati ma con velocità diverse tali da non alterare, tuttavia, le differenze strutturali iniziali.

Spagna e Italia continuano a registrare livelli occupazionali nella sanità al di sotto di quando rilevato in Germania, Francia e Svezia. Ma non è solo la dimensione occupazionale a mostrarsi asimmetrica in un confronto europeo. Anche alcuni elementi più qualitativi. Un confronto per la densità di medici (senza specificare il tipo di specializzazione) sulla popolazione (ogni 1000 cittadini) mostra come sia possibile individuare almeno tre gruppi distinti di Paesi in funzione del posizionamento rispetto alla media europea: paesi come l’Austria, Lituania, Germania e Svezia con valori significativamente più alti; paesi come Italia, Danimarca, Francia e Olanda allineati al valore medio europeo; e in ultimo paesi come Regno Unito, Lussemburgo e Polonia con una densità decisamente al di sotto del valore medio. Se si guarda alla densità di infermieri/e per paese (sempre per 1000 cittadini) è possibile distinguere sempre tre gruppi ma con composizioni differenti: in particolare si rileva una densità più bassa, relativamente alla densità di medici, per Italia, Spagna e Austria, e al contrario, una densità relativamente più alta per Lussemburgo e Finlandia.



Di interesse, relativamente ai medici, è la distribuzione per classe di età ed in particolare la quota di over 55. A quote più alte di over 55 è evidentemente associata una maggiore rigidità in ingresso del mercato del lavoro interno. A tal riguardo, su una media dei paesi EU-15 di circa il 35,7% di over 55 si distinguono, per essere in cima a questa classifica, l’Italia (con oltre il 54%), la Germania e la Francia (con il 44%) e, per essere in coda alla classifica, il Regno Unito, l’Irlanda e la Norvegia (con percentuali sotto il 25%).
In ultimo, si illustrano le differenze per tipologia di letti nelle strutture ospedaliere e per il numero di letti nelle strutture extraospedaliere per mostrare le tendenze nelle strategie percorse dai diversi paesi europei in termini di gestione del servizio sanitario. Come già osservato da Emmanuele Pavolini (Università degli Studi di Macerata) in un recente articolo, i servizi sanitari generalmente si sono mossi verso un potenziamento più nella gestione delle cronicità che nelle acuzie, perché così suggerivano le analisi dei fabbisogni socio-sanitari in tutto l’Occidente.
Quindi, la logica che ha guidato la trasformazione di molti sistemi sanitari occidentali è stata: meno posti letto per acuti in ospedale e più attività di ambulatoriale/specialistica sul territorio, più strutture socio-sanitarie residenziali (ad esempio, RSA) e più interventi domiciliari
(di Emmanuele Pavolini, in La sanità italiana di fronte alla crisi del Coronavirus).

Il numero di letti ospedalieri (espresso come densità su 100.000 abitanti, dati Eurostat 2018 su EU 28) mostra anch’esso molta disomogeneità in una comparazione europea: dagli oltre 800 della Germania ai 318 dell’Italia e dai 745 della Bulgaria ai 222 della Svezia. Se si osservano le dinamiche degli ultimi 20 anni (2000-2017) sono distinguibili in tutti i paesi alcuni segni comuni, anche in questo caso. Nella larga parte dei paesi si registra una contrazione del rapporto dei letti ospedalieri sulla popolazione (numero di letti per 1000 abitanti).

Nei 6 Paesi analizzati (nella figura qui a fianco), si rileva un calo della densità dei letti per popolazione continuo nel tempo, sebbene si registri una caduta più rapida tra il 2000 ed il 2010. La Germania scende da oltre 9,12 letti per 1000 abitanti a 8 mentre la Francia da 7,97 a 5,98. Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito segnano una riduzione dei letti ospedalieri per popolazione in linea con la tendenza europea ma partendo da posizioni di partenza distanti da quanto registrato in Germania e Francia. In Italia, in particolare si passa dai 4,71 letti per 1000 abitanti del 2000 a 3,18 nel 2017. Svezia e Regno Unito mostrano la contrazione più pronunciata della densità di letti ospedalieri in un confronto europeo (-37% dal 2000 al 2017).
Ma la totalità dei letti ospedalieri se restituisce informazioni sulla concentrazione delle strutture ospedaliere poco dice sulle scelte dei servizi sanitari. Scomponendo i letti per tipologia di cura (acuti, riabilitative e lungodegenze) si evidenziano alcune tendenze comuni e alcune divergenze strutturali. Tra il 2002 ed il 2017 in tutti i paesi si registra una contrazione dei letti destinati alle attività curative (curative care) confermando un comportamento omogeneo di tutti i servizi sanitari ma partendo da posizioni strutturali nazionali distinte: in Bulgaria e Germania i letti per acuti continuano a superare i 600 (su 100 mila abitanti) mentre in Italia, Danimarca, Svezia, Spagna e Regno Unito sono meno di 300.

In dinamica solo 5 dei 27 Stati membri dell’UE (dati incompleti per il Regno Unito) hanno registrato un aumento del loro numero di letti di cure curative negli ospedali (rispetto alla dimensione della loro popolazione) tra il 2012 e il 2017: si registra un piccolo aumento in Spagna, mentre il numero di posti letto per 100.000 abitanti è aumentato a un ritmo più rapido in Romania (un aumento di 36 posti letto per 100.000 abitanti), Irlanda (40 posti letto; diversi dai letti per cure psichiatriche, esclusi i letti nel settore sanitario privato), Bulgaria (57 letti) e Malta (68 letti; sebbene vi sia un’interruzione in serie). Durante il periodo in esame, Austria, Paesi Bassi e Lituania (dove il valore include tutti i letti di cura a lungo termine negli ospedali psichiatrici) hanno visto il loro rispettivo numero di letti curativi diminuire di oltre 50 letti per 100.000 abitanti. Diversamente i letti destinati alle cure riabilitative mostrano una crescita tendenziale nella maggior parte dei paesi EU-28 (Eurostat).

In ultimo si riportano alcune informazioni relativamente al numero di letti per le cure di lungodegenza nelle strutture extraospedaliere, la cui dinamica è strettamente legata alle scelte operate per le strutture ospedaliere. Alla generale contrazione delle cure di lungodegenza nelle strutture ospedaliere, si registra un aumento (seppur i dati siano molto frammentati e non disponibili per tutti i paesi). Nel 2017 si contano in EU-28 circa 3,7 milioni di letti in strutture extraospedaliere con consistenze massime in Svezia e in Olanda e con performance più pronunciate in Finlandia e Lussemburgo. Diversamente in Italia, così come in Romania, Croazia e Polonia si registrano, sebbene in ripresa, le densità di letti più contenute dimostrando come in alcuni paesi (come l’Italia) ad un calo dell’offerta (di letti) ospedaliera non abbia corrisposto un medesima dinamica in segno opposto nelle strutture extraospedaliere.
Molto interessante!
Grazie Davide, il quadro che ci proponi fa riflettere sulle scelte passate e le loro conseguenze sul contingente.
Le politiche di rigore sono state ritenute lo strumento necessario per rendere le economie più competitive, determinando il taglio orizzontali (giustificati come sprechi) alla ricerca di e una maggiore efficienza e competitività.
Oggi questa immane tragedia ci dice, invece, che i parametri di misurazione dell’efficienza del sistema sanitario (e dell’economia) stanno nel valore delle persone, della capacità di assistere e salvare vite. Dobbiamo ripensare il concetto di efficienza e di valore.